
Per l’annullamento di un contratto ai sensi dell’art. 428 c.c., la prova dell’incapacità naturale del contraente richiede che sia provata una patologia grave che menomi significativamente le facoltà intellettive e volitive, al punto da impedire una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio. Tale stato non richiede necessariamente una privazione totale delle facoltà psichiche ma deve essere dimostrata la sua presenza al momento della stipula del contratto mediante prove univoche ed incontestabili anche attraverso indizi e presunzioni.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Bertuzzi – Rel. Trapuzzano, con l’ordinanza n. 4586 del 21 febbraio 2025.
LA VICENDA
Il proprietario di un immobile aveva venduto la nuda proprietà ad un terzo, riservando per sé il diritto di usufrutto generale vitalizio.
A seguito della morte dell’usufruttuario, il nudo proprietario citava in giudizio il coniuge del de cuius per chiedere il rilascio dell’immobile in ragione del consolidamento in capo a sé della piena proprietà dell’immobile.
Il convenuto si costituiva in giudizio deducendo l’infondatezza delle pretese di parte attrice in fatto e in diritto, e chiedendo, in via riconvenzionale, che fosse pronunciato l’annullamento dell’atto di compravendita per incapacità naturale del coniuge alienante, che – al momento della stipula – “era affetto da una grave sindrome ansioso-depressiva per la quale era in cura con terapia farmacologica”.
Il Tribunale adito, con sentenza, accoglieva la domanda attrice, condannando la convenuta al rilascio del bene immobile oggetto di causa, libero da persone e cose, e rigettava la domanda riconvenzionale di annullamento del contratto di compravendita.
A fondamento della pronuncia il giudice di prime cure aveva ritenuto non acquisita la prova dell’incapacità naturale dell’alienante al momento dell’atto di vendita per insufficienza della documentazione prodotta dalla convenuta, con la conseguente carenza di prova non solo dell’incapacità al momento dell’atto, ma anche della sussistenza, nel periodo anteriore e nel periodo successivo alla data dell’atto, di una grave patologia menomamente della capacità intellettiva e volitiva del venditore, valorizzando una serie di elementi presuntivi nel senso dell’insussistenza dell’invocata incapacità, come il regolare svolgimento dell’attività lavorativa nel corso di più anni prima del decesso o la mancata rilevazione di alcuna anomalia da parte del notaio rogante.
Il coniuge dell’usufruttuario proponeva appello avverso la pronuncia di primo grado, lamentando:
1) l’erroneità del mancato riconoscimento dell’incapacità naturale del venditore, in ragione della parziale valutazione delle risultanze istruttorie acquisite, alla luce della ponderazione del solo aspetto ansioso-depressivo, non integrante alcuna patologia importante, senza considerare il rappresentato quadro clinico molto più complesso, caratterizzato da un deficit cognitivo di rilevanza determinante ai fini del giudizio sulla sua reale capacità di discernimento, come confermato da sentenza di inabilitazione risalente al 2006;
2) l’erronea valorizzazione degli elementi presuntivi, caratterizzati in mansioni che sarebbero state compatibili con la specifica incapacità non totalizzante del de cuius;
3) l’omessa motivazione e valorizzazione delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado in ordine all’accertamento del sensibile ribasso di oltre il 50% del prezzo praticato di vendita della nuda proprietà rispetto al prezzo di mercato applicabile, quale indice non solo di malafede dell’altro contraente, ma anche dell’incapacità dell’usufruttuario;
4) la mancata considerazione del difetto di qualsiasi prova del versamento, in favore del nudo proprietario, del prezzo concordato di euro 31.000,00 per la vendita della nuda proprietà, quale ulteriore indice della malafede del nudo proprietario.
Si costituiva nel giudizio di impugnazione il nudo proprietario, il quale instava per il rigetto del gravame e per la conseguente conferma della pronuncia appellata.
La Corte d’Appello di Firenze rigettava il gravame e confermava integralmente la pronuncia impugnata.
Avverso il provvedimento di appello, il coniuge del de cuius proponeva ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, al quale resisteva con controricorso il nudo proprietario.
Con il primo motivo il ricorrente denunciava, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., per avere la Corte di merito affermato, in maniera irriducibilmente contraddittoria, che – da un lato – l’usufruttuario fosse persona munita di una ipodotazione di base di modeste entità e senz’altro condizionabile, a causa delle sue caratteristiche caratteriali e della sua depressione, concludendo – dall’altro – nel senso che quest’ultimo fosse in grado autonomamente di comprendere e volere gli effetti dell’atto che stava compiendo.
Osservava l’istante che era dimostrato in atti che il de cuius, a partire dal mese antecedente all’atto impugnato, era stato colpito da depressione del tono dell’umore, con stati di ansia, e sottoposto a trattamento con antidepressivi e ansiolitici, deficit cognitivo grave che sarebbe stato successivamente confermato dalla sentenza con la quale il de cuius era stato inabilitato, con la conseguenza che, dallo stesso tenore della sentenza impugnata, sarebbe emersa la sua illogicità manifesta.
La Suprema Corte riteneva tale motivo infondato, affermando che ai fini della sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio ex art. 428 c.c., non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che esse siano menomate, sì da impedire comunque la formazione di una volontà cosciente.
La prova di tale condizione, infatti, non richiede la dimostrazione che il soggetto, al momento di compiere l’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che queste erano perturbate al punto da impedirgli una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente, e può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi per la sua configurabilità.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso, con condanna della ricorrente alla refusione delle spese di lite.
Per ulteriori approfondimenti in materia si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
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