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Un anno dopo, il caso “Lexitor” è tutt’altro che chiuso.
La nota sentenza della Corte di Giustizia UE (11 settembre 2019, causa “Lexitor” C-383/2018), resa – in sede di rinvio pregiudiziale – sul delicato tema del rimborso dei costi dovuto al consumatore in caso di estinzione anticipata di un finanziamento, lungi dal contribuire a mettere una pietra “tombale” su un contenzioso già “seriale”, ha finito per aprire una profonda “frattura” interpretativa tra le parti “in causa”.
Sulle pagine di questa Rivista si è ampiamente discusso, sin da subito, su quale potesse essere l’impatto della decisione sui rapporti nazionali “orizzontali” tra banca e cliente-consumatore, ma sull’argomento è opportuno tornare per dar conto di alcuni esiti giurisprudenziali e per provare ad assumere una prospettiva che non trascuri, a fronte delle ragioni dei consumatori, quelle degli intermediari.
Il dictum dei Giudici di Lussemburgo è noto, quanto lapidario: «L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore».
Il principio è stato subito inteso come la “pietra miliare” del definitivo superamento della tradizionale distinzione tra costi “up front” e “recurring” ai fini della disciplina dell’estinzione anticipata di un finanziamento (con particolare riferimento al settore dei mutui con “cessione del quinto” dello stipendio o della pensione).
Sennonché, anche gli “epigoni” più intransigenti della “Lexitor” non possono dimenticare che tale distinzione non ha fonte solo interpretativa, ma trova solide radici, nel nostro ordinamento, nella produzione normativa primaria e secondaria.
Proprio questo è l’aspetto che maggiormente impatta sul contenzioso nazionale: gli Istituti di credito, almeno nel corso degli ultimi dieci anni, si sono adeguati ad una normativa di settore che mai ha messo in discussione la distinzione tra costi “istantanei”, irrimborsabili, e costi “ricorrenti”, soggetti a maturazione nel tempo e quindi rimborsabili in relazione al periodo di finanziamento “non goduto”.
“Bersaglio”, oggi, di una crescente mole di reclami ed azioni giudiziali volti al riconoscimento del diritto al rimborso di quei costi che – per contratto, legge, normativa secondaria e granitica giurisprudenza – erano espressamente esclusi dal novero degli importi soggetti a “riduzione”, le banche mutuanti si trovano esposte a notevoli rischi sistemici, che rischiano di minarne la stessa stabilità di bilancio.
Proprio rispetto a tale ultimo profilo la questione si fa più delicata, posto che la stabilità del sistema bancario nel suo complesso è principio certamente meritevole di tutela da parte del legislatore comunitario, alla pari di quelli di certezza del diritto (art. 6 § 3 del Trattato sull’Unione Europea), di tutela della proprietà (17 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) di tutela dalle distorsioni della concorrenza (artt. 101 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che devono trovare un bilanciamento con le ragioni dei consumatori-mutuatari.
Non va dimenticato che la parte più cospicua dei costi tradizionalmente classificati come irripetibili, poiché tesi a remunerare attività preliminari alla concessione del prestito, sono di pertinenza di soggetti “terzi”, quali i mediatori creditizi, che incassano immediatamente dall’istituto mutuante le proprie provvigioni, anticipate da quest’ultimo e detratte dall’importo erogato al mutuatario.
Sicché la pretesa di ripetere dall’istituto costi già corrisposti a soggetti terzi rischia di creare un “cortocircuito” nel sistema, intaccando equilibri di bilancio consolidati e facendo ricadere unicamente sulla banca i rischi di insolvenza della c.d. catena distributiva, rischi assolutamente imprevedibili al momento della conclusione del contratto, in ragione del quadro normativo e pattizio allora vigente.
Ecco perché è necessaria chiarezza ed ecco perché l’argomento è stato oggetto persino di una recente interrogazione parlamentare dello scorso 10 giugno 2020 innanzi alla VI Commissione permanente “Finanze” (n. 5-04106), all’esito della quale il Sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze, esaminando tutte le posizioni “in gioco”, ha concluso evidenziando la necessità che “una eventuale soluzione normativa non potrà prescindere da un corretto bilanciamento degli interessi individuali contrapposti, tenendo conto delle esigenze di certezza del diritto, di tutela del legittimo affidamento e anche di minimizzazione del rischio per lo Stato”.
Quale “legittimo affidamento” e quale rischio da “minimizzare” per lo Stato?
Per comprenderlo è necessario fare un passo indietro ed esaminare il caso “Lexitor” nella prospettiva dialettica che lega l’ordinamento dell’Unione a quello nazionale.
I rapporti tra diritto dell’Unione ed ordinamento nazionale
In tale ottica, va considerato preliminarmente come l’oggetto interpretativo della pronuncia sia l’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori (di seguito, per brevità, anche “CCD”) e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio.
La decisione pregiudiziale interpretativa della Corte di Giustizia UE non è stata resa su rinvio di un organo giurisdizionale italiano, ma è stata sollecitata nell’ambito di tre controversie pendenti innanzi ad organi giurisprudenziali polacchi, tenuto conto della «legge sul credito al consumo» che traspone la direttiva 2008/48 proprio nell’ordinamento giuridico polacco.
L’argomento è fondamentale, se non decisivo, in quanto la vincolatività (indubbia) dell’interpretazione dei Giudici di Lussemburgo è tale solo rispetto alla fonte interpretata (quella comunitaria, in quanto la domanda di pronuncia pregiudiziale deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione) e non già rispetto alla disciplina nazionale, il che porta necessariamente a chiedersi se detta fonte “interpretata” sia idonea a spiegare i propri effetti diretti nell’ordinamento nazionale e, se sì, in quale “direttrice”.
La direttiva 2008/48 non ha “efficacia diretta” (direttiva non “self executing”)
Come noto, solo la normativa UE avente efficacia diretta può condurre alla disapplicazione del diritto nazionale che non sia ad essa conforme (c.d. effetto di esclusione).
Ai sensi dell’art. 288, n. 3, TFUE, le direttive sono una fonte obbligatoria di diritto secondario dell’Unione europea. Esse presentano la caratteristica di vincolare gli Stati membri cui sono dirette (nella maggior parte dei casi, tutti gli Stati) per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi quanto alla scelta della forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. A differenza dei regolamenti, quindi, non sono direttamente applicabili negli ordinamenti interni, né hanno portata generale, avendo come destinatari formali solo Stati membri.
Con la progressiva elaborazione del diritto comunitario si è giunti ad attribuire, a determinate condizioni, ad alcune direttive l’idoneità a produrre effetti diretti.
In via di estrema sintesi, l’efficacia diretta è stata affermata per le c.d. direttive “self executing”, ovverosia quelle sufficientemente dettagliate nei propri contenuti, che, quindi, non necessitano di alcun provvedimento di attuazione da parte dello Stato membro ed hanno il “potere” di incidere direttamente nella sfera giuridica del singolo cittadino.
Orbene, è da escludersi che la Direttiva 2008/48 (come interpretata dalla CGUE e nella parte che qui interessa) abbia natura “self executing”.
Essa, infatti se, da un lato, con l’art. 16, par. 1 detta una chiara indicazione “di principio” circa l’attribuzione al cliente del “diritto” alla “riduzione del costo totale del credito”, dall’altro:
- non dettaglia il criterio temporale di restituzione che il “legislatore” europeo intende adottare;
- lascia ai legislatori nazionali ampi margini di manovra nella disciplina di dettaglio (con particolare riguardo alla determinazione dei meccanismi di indennizzo di cui ai successivi paragrafi dell’art. 16).
D’altronde, la natura “self executing” della direttiva in parola va esclusa, ragionando a contrario, proprio in ragione dei dubbi interpretativi che hanno determinato la necessità di rivolgersi alla Corte di Giustizia UE per definire una linea ermeneutica univoca. In tale ottica, la stessa parte motiva della sentenza “Lexitor” lascia trasparire l’incertezza dei Giudici di Lussemburgo a fronte del ventaglio di interpretazioni (ed, a monte, di “traduzioni”) possibili del contenuto della direttiva.
Inefficacia nei rapporti “orizzontali”
Va detto che l’eventuale efficacia diretta riguarderebbe sempre e comunque i soli rapporti tra i cittadini e lo Stato (effetto verticale delle direttive) e solo nei casi in cui l’ordinamento comunitario preveda norme più favorevoli (purché attributive di diritti incondizionati e precisi) per i cittadini rispetto alla normativa interna che non sia stata adeguata.
Per contro, la Corte UE ha da sempre ribadito l’assenza di qualsiasi effetto “orizzontale” delle direttive, vale a dire la possibilità che queste possano esplicare effetti tra privati pur mancando una disposizione nazionale di recepimento. La responsabilità è, infatti, configurabile solo in capo allo Stato e solo a quest’ultimo si impone l’obbligo dell’eventuale risarcimento del danno causato. In assenza di provvedimenti di attuazione entro i termini prescritti, un privato non può fondare su una direttiva un diritto nei confronti di un altro privato, né può farlo valere dinanzi a un giudice nazionale.
Se la direttiva “interpretata” non può essere oggetto di applicazione diretta nei rapporti “orizzontali” tra banca e consumatore, nulla quaestio: il giudice italiano non può che limitarsi a constatare l’irrilevanza della pronuncia “Lexitor” nel contenzioso nazionale.
L’analisi potrebbe terminare qui.
Ed invero, questo è stato il principale argomento di quella parte della giurisprudenza di merito che ha accolto le difese degli istituti di credito all’indomani del “revirement” di Lussemburgo.
Così:
- il Tribunale di Napoli, con sentenza 10489 del 22 novembre 2019, ha ritenuto che «non è direttamente invocabile dal cliente, nei confronti della banca mutuante, la sentenza interpretativa dell’11 settembre 2019 […]. Tale sentenza interpreta la Direttiva UE 2008/48, non l’art. 125, co. 2 TUB applicabile in questo caso, né l’art. 125 sexies TUB che è stato utilizzato per interpretare l’art. 125.2; [nel caso di specie] non è stato dedotto che la direttiva UE 2008/48 sia self executing, e non ne è stata chiesta l’applicazione diretta, e del resto non risulta che lo fosse, tanto che è stato necessario l’intervento interpretativo della Corte di Giustizia; in ogni caso, salvo eccezioni che in questo caso non risultano ricorrere, una Direttiva non può essere immediatamente applicabile nei rapporti tra privati. Si può affermare che, alla luce della citata sentenza, la Repubblica Italiana abbia non correttamente trasposto nel diritto nazionale la Direttiva 2008/48 UE, ma tale situazione può dar luogo ad una responsabilità dello Stato italiano per erronea trasposizione della Direttiva, che comunque non sarebbe direttamente applicabile nei rapporti tra privati. Quindi, la sentenza dell’11 settembre 2019 della Corte di Giustizia UE non sposta i termini della presente decisione».
- il Tribunale di Monza, con sentenza n. 2573 del 22 novembre 2019 ha parimenti ritenuto che «[…] la disciplina applicabile dal giudice italiano è unicamente quella nazionale, non potendosi riconoscere alla Direttiva 2008/48 UE la natura di direttiva self-executing – da cui deriverebbe l’obbligo in capo al giudice di merito di disapplicare, anche in assenza di un provvedimento di recepimento da parte dello Stato membro, la normativa interna in contrasto con la fonte sovranazionale, per l’effetto decidendo il caso concreto in virtù delle disposizioni comunitarie. La natura self-executing della direttiva può esser esclusa in ragione dei numerosi dubbi interpretativi che hanno costretto i giudici di merito di svariati Stati comunitari a rivolgersi alla Corte di Giustizia UE per definire una linea ermeneutica univoca (CGUE, Prima sezione, sentenza 11 settembre 2019, c.d. caso “Lexitor”). Ne deriva che non viene in rilievo la portata della nota sentenza interpretativa “Lexitor”, non attenendo (la norma interpretata) ad una fonte direttamente applicabile nei rapporti interprivatistici».
- ancora il Tribunale di Napoli, con sentenza n.2391 del 10 marzo 2020, ha confermato che
«In tema di rimborso degli oneri dovuto al consumatore in conseguenza dell’estinzione anticipata di un finanziamento, non pare applicabile la sentenza dell’11-09-2019 C-383 della Corte di giustizia UE (“caso Lexitor”) che ha interpretato l’art. 16 della Direttiva UE n. 48/2008 in contrasto con il testo dell’art. 125-sexies TUB. In effetti la citata Direttiva europea non pare self-executing e non può trovare diretta applicazione nei rapporti interprivatistici nel nostro ordinamento. Deve perciò, in via generale, ancora ritenersi che, in riferimento alle spese accessorie ad un contratto di finanziamento, appare opportuno distinguere tra la remunerazione di servizi temporalmente collocabili nella fase preliminare e/o formativa del regolamento negoziale, c.d. up-front, e remunerazione di attività destinate a trovare svolgimento nella fase esecutiva, c.d. recurring».
- il Giudice di Pace di Napoli, con sentenze nn. 18706 del 12 maggio 2020 e 29643 del 9 settembre 2020 si è pronunciato in conformità alle anzidette pronunce del Tribunale partenopeo rese in funzione di giudice d’appello;
- il Giudice di Pace di Roma, con sentenza n. 13888 del 28 agosto 2020 ha ribadito che «[…] la Direttiva 48/2008/CE art. 16 par. 1, ha comunque efficacia verticale, con ciò intendendosi che l’interessato può far valere solo nei confronti dello Stato una asserita imperfetta attuazione della direttiva, mentre essa non ha efficacia orizzontale tra privati, con conseguente impossibilità, per il giudice, di procedere alla disapplicazione della normativa italiana (il cui contrasto con la direttiva peraltro non è dimostrato)»;
- da ultimo, il Giudice di Pace di Como, con sentenza n. 538 del 13 ottobre 2020 si è posto nel medesimo solco dei precedenti, affermando che «[…] secondo la giurisprudenza costante (Tribunale di Napoli sentenza n. 10489 del 22 /11/19; Tribunale di Monza sentenza n. 2573 del 22/11/19; Tribunale di Torino sentenza n. 1283 del 4/4/18), non pare applicabile la sentenza dell’11 settembre 2019, C-383, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, interpretativa dell’art. 16 della Direttiva 2008/48/CE, in contrasto con il testo dell’art. 125 sexies TUB, poiché la citata fonte normativa europea, non essendo self executing, non può trovare diretta applicazione nei rapporti interprivatistici ordinamentali».
La trasposizione (erronea) della Direttiva 2008/48 nell’ordinamento italiano
L’analisi non può, evidentemente, fermarsi alla mera affermazione dell’inefficacia orizzontale della Direttiva.
Tra le righe della giurisprudenza accennata emerge, infatti, neanche malcelato, il tema dell’erronea trasposizione della Direttiva nell’ordinamento italiano. Giacché, nel caso di specie, non ci troviamo di fronte ad un caso di mancata trasposizione.
Il legislatore italiano ha recepito l’art. 16 cit. con l’introduzione nel Testo Unico Bancario dell’art. 125 sexies, ad opera del D.Lgs. n. 141/2010.
Pertanto, la traccia interpretativa si arricchisce con la riflessione volta ad individuare se possa esservi un contrasto netto (per effetto della erronea trasposizione) tra normativa comunitaria e normativa interna. In altri termini, l’invocabilità diretta delle disposizioni di cui alla direttiva oggetto della interpretazione “estensiva” da parte della CGUE sarebbe comunque da escludere, ove si constatasse l’assoluta inconciliabilità tra la direttiva stessa e la disciplina interna di attuazione.
In tal senso ha ragionato il Tribunale di Mantova, con ordinanza del 30 giugno 2020, affermando addirittura che «[…] la sentenza della Corte di Giustizia UE dell’11 settembre 2019 (c.d. Lexitor) […] non appare attagliarsi al sistema normativo italiano che, rispetto a quello polacco, è certamente molto più garantista per il cliente avendo esattamente disciplinato i diritti restitutori in caso di estinzione anticipata, con l’art. 125 sexies TUB. La normativa nazionale non fa alcun riferimento ai costi iniziali sostenuti dal cliente e la circostanza non appare né una dimenticanza né una eccessiva sproporzione a svantaggio del cliente. Gli unici costi che possono essere oggetto di domanda di rimborso, come peraltro recita l’art. 125 sexies TUB, sono quelli che non dovrà più sostenere avendo rimborsato anticipatamente il debito.
Peraltro, la decisione resa dalla Corte di Giustizia nel 2019 non può trovare applicazione, anche perché resa su norma polacca dal tenore evidentemente difforme da quello cristallizzato nell’art. 125 sexies TUB nel quale il legislatore nazionale si è fatto onere di disciplinare quali siano le conseguenze del rimborso anticipato».
Dell’inconciliabilità radicale tra Direttiva e normativa di recepimento occorre interrogarsi anche in ragione dell’emersione di un orientamento opposto rispetto all’impostazione qui assunta, riassunto dalla pronuncia del Collegio di Coordinamento dell’ABF dell’11 dicembre 2019 n. 2625 che, (con un inatteso rovesciamento della consolidata giurisprudenza arbitrale) ha proposto “sbrigativamente” la via dell’interpretazione dell’art. 125 sexies TUB nel senso indicato dai Giudici di Lussemburgo, per adeguare così, con un tratto di penna, l’ordinamento italiano alla disciplina comunitaria.
Tuttavia, l’adeguamento tranchant della disciplina nazionale in via ermeneutica rischia di produrre, con il medesimo tratto di penna, quell’impatto sistemico cui si è accennato in apertura, incidendo su un humus di situazioni sostanziali disciplinate per oltre un decennio in maniera opposta (e, si badi, del tutto conformemente al quadro normativo, sic!).
Per evitare un simile impatto, peraltro, la stessa Corte di Lussemburgo in simili fattispecie ha richiamato l’attenzione sulla circostanza che l’interpretazione conforme non è mai praticabile quando si riveli contra legem (cfr. Corte giustizia 24.1.2012 in causa C-282/10, Dominguez) o, detto in altri termini, allorquando l’inconciliabilità della normativa nazionale sia talmente evidente da non consentire affatto di “forzare” la lettera della norma per conseguire il risultato voluto dalla direttiva.
Nel caso di specie, l’incompatibilità trova alcuni indizi già nel dettato letterale della disciplina di attuazione.
L’art. 125 sexies T.U.B. utilizza una formulazione parzialmente differente rispetto all’art. 16 della Direttiva:
- quest’ultima attribuisce al consumatore il “diritto ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto”.
- la disciplina interna parla invece di riduzione “pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto”.
Sicché, da un lato, l’espressione “pari a…” manifesta l’intenzione del legislatore a comprimere il diritto al rimborso limitandolo “esattamente a…” i costi soggetti a maturazione nel periodo non goduto e, dall’altro, l’accento posto nella formulazione italiana sul termine “dovuti” assume un preciso senso giuridico, legandosi ad una valenza “causale”, tale per cui il legislatore intenderebbe includere nel rimborso solo i costi che trovino la propria funzione concreta, appunto, in relazione alla durata residua del contratto.
Se ciò non bastasse a chiarire la voluntas legis, soccorre l’interpretazione sistematica:
- l’ 6-bis, comma 3 del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (introdotto dal D.Lgs. 19 settembre 2012, n. 169) affida alla Banca d’Italia il compito di definire ai sensi del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, disposizioni per favorire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti nonché l’efficienza nel processo di erogazione di finanziamenti verso la cessione di quote di stipendio o salario o di pensione, volte a: «[…] b) rendere la struttura delle commissioni trasparente, in modo da permettere al cliente di distinguere le componenti di costo dovute all’intermediario e quelle dovute a terzi, nonché gli oneri che devono essergli rimborsati in caso di estinzione anticipata del contratto».
Orbene se il legislatore si prefigge lo scopo di assicurare al consumatore di poter “distinguere” gli oneri che devono essergli rimborsati in caso di estinzione anticipata, ritiene che quest’ultimo non abbia affatto diritto al rimborso di “tutti i costi”, così come l’interpretazione “Lexitor” vorrebbe;
- la Comunicazione di Banca d’Italia del 10 novembre 2009 richiede agli intermediari del comparto CDQ di migliorare i documenti di trasparenza, attraverso la chiara ripartizione delle commissioni percepite anticipatamente dagli intermediari tra quote up-front e recurring («[…] è necessario che nei fogli informativi e nei contratti di finanziamento sia riportata una chiara indicazione delle diverse componenti di costo per la clientela, enucleando in particolare quelle soggette a maturazione nel corso del tempo (a titolo di esempio, gli interessi dovuti all’ente finanziatore, le spese di gestione e incasso, le commissioni che rappresentano il ricavo per la prestazione della garanzia “non riscosso per riscosso” in favore dei soggetti “plafonanti”, ecc.)»;
- la Comunicazione Banca d’Italia del 7 aprile 2011, all’indomani proprio dell’introduzione dell’art. 125 sexies TUB, rinnova il richiamo «a definire correttamente – in linea con le nuove disposizioni sul credito ai consumatori – la ripartizione tra commissioni up-front e recurring, includendo nelle seconde le componenti economiche soggette a maturazione nel tempo»;
- gli Orientamenti di Vigilanza in materia di cessione del quinto del Marzo 2018 (par. III, punti 12 e 15), rimarcano con ulteriore nettezza la differenza tra costi “up-front” e “recurring”, presupponendo la non rimborsabilità dei primi e la rimborsabilità pro quota dei secondi. Testualmente: «Le Disposizioni richiedono che la documentazione precontrattuale e contrattuale indichi in modo chiaro i costi applicabili al finanziamento; in relazione al diritto del consumatore al rimborso anticipato, vanno anche indicate le modalità di calcolo della riduzione del “costo totale del credito”, specificando gli oneri che maturano nel corso del rapporto (cd. “recurring”) e che devono quindi essere restituiti al consumatore se corrisposti anticipatamente e in quanto riferibili ad attività e servizi non goduti»;
- last, but not least, le Disposizioni di vigilanza del 29 luglio 2009 e s.m.i. – trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti, alla sezione VII, par. 5.2.1. – contratti di credito, prevedono che «i contratti di credito indicano in modo chiaro e conciso: […] q) il diritto del consumatore al rimborso anticipato previsto dall’articolo 125 sexies, comma 1 del T.U. e le procedure per effettuarlo nonché, in presenza delle condizioni ivi stabilite, il diritto del creditore ad ottenere, ai sensi dell’articolo 125 sexies comma 2 del T.U., un indennizzo a fronte del rimborso anticipato e le relative modalità di calcolo», chiarendo ulteriormente che: «nei contratti di credito con cessione del quinto dello stipendio o della pensione e nelle fattispecie assimilate, le modalità di calcolo della riduzione del costo totale del credito a cui il consumatore ha diritto nel caso di estinzione anticipata, includono l’indicazione degli oneri che maturano nel corso del rapporto e che devono quindi essere restituiti per la parte non maturata, dal finanziatore o da terzi, al consumatore, se questi li ha corrisposti anticipatamente al finanziatore».
Non sono stati, quindi, gli intermediari ad aver mal “interpretato” l’art. 125 sexies T.U.B., ma è il quadro normativo nazionale nel suo complesso ad aver prodotto la radicata distinzione tra le due categorie di costi ai fini della differente disciplina del rimborso.
Un quadro normativo, in definitiva, che avrebbe – nel suo complesso – trasposto male la Direttiva, ma come si possa passar sopra tale sedimentata produzione normativa ed esigere improvvisamente dagli istituti una condotta differente, non è dato sapere.
È soprattutto con riferimento alle indicazioni dell’Organo di Vigilanza (che vincolano gli intermediari “vigilati” sotto la scure di inevitabili sanzioni) che va rimeditato ogni tentativo di estendere tout court l’interpretazione “Lexitor” al caso italiano.
Ecco il tema del “legittimo affidamento”: se la Banca è stata “compliant” rispetto alla normativa nazionale ed alle indicazioni del proprio Organo di Vigilanza (sic!), per quale ragione deve subire le conseguenze negative derivanti dalla inesatta trasposizione della direttiva?
Sarebbe pertanto impensabile che un’interpretazione della Direttiva “in astratto”, ossia scollegata dalle specificità del caso concreto per il quale è stata resa (pur promanando dall’autorevole consesso della Corte di Giustizia) possa improvvisamente rendere illecite prassi a cui le Autorità hanno progressivamente e faticosamente indirizzato gli intermediari.
Ciò non soltanto sarebbe lesivo di quel principio di certezza del diritto tanto caro alla giurisprudenza comunitaria, ma ignorerebbe anche la realtà di un mercato regolamentato, il cui raggiungimento dell’equilibrio non può che essere affidato ad un organo tecnico e indipendente, quale la Banca d’Italia, che, nell’ambito dei margini interpretativi delle disposizioni legislative, è il solo chiamato ad una difficile opera di mediazione tra gli interessi contrapposti (ma non necessariamente conflittuali) degli intermediari e dei consumatori – risparmiatori.
La valorizzazione del principio del “legittimo affidamento” degli intermediari va intesa in due direttrici:
- l’obiettiva inesigibilità di una prestazione difforme dal contesto normativo nazionale, avuto anche riguardo all’apprezzamento della condotta della banca alla stregua della “buona fede” nei rapporti interprivatistici, secondo le tracce ermeneutiche più recenti;
- l’irretroattività dell’interpretazione “Lexitor”, che non potrà mai essere invocata con riferimento tutti i rapporti sorti nel periodo dal 4.9.2010 – data di pubblicazione sulla G.U. del D.Lgs. n. 141/2010 – sino al 4.12.2019 (data alla quale risalgono le nuove Linee orientative dell’Organo di Vigilanza), dovendo ritenersi legittimo il comportamento degli Intermediari che si siano adeguati alle Istruzioni di Banca di Italia tempo per tempo vigenti.
Con particolare riferimento al tema dell’irretroattività del nuovo orientamento della CGUE, il Tribunale di Torino, dott. Edoardo Di Capua, con ordinanza del 29 giugno 2020, nel valutare la legittimità della condotta di un intermediario in sede di azione inibitoria promossa da un’associazione dei consumatori, ha escluso «[…] l’efficacia retroattiva della pronuncia in questione per il periodo dal 4.9.2010 – data di pubblicazione sulla G.U. del D.Lgs. n. 141/2010 – sino al 4.12.2019 (data alla quale risalgono le nuove Linee orientative dell’Organo di Vigilanza), dovendo ritenersi legittimo il comportamento degli Intermediari che si siano adeguati alle Istruzioni di Banca di Italia tempo per tempo vigenti, anche in relazione all’obiettiva inesigibilità di condotte difformi; va parimenti esclusa l’efficacia diretta orizzontale del provvedimento de quo (rectius, della Direttiva 2008/48/CE “oggetto di interpretazione”), secondo l’orientamento di buona parte della giurisprudenza (cfr. Tribunale di Napoli, sentenza del 22 novembre 2019 n. 10489; Tribunale di Monza, sentenza del 22 novembre 2019 n. 2573; Tribunale di Napoli, sentenza del 10 marzo 2020 n. 2391)».
Infatti, solo con l’improvviso “cambio di rotta” del 4 dicembre 2019, Bankitalia ha fornito nuove istruzioni agli intermediari, raccomandando a questi ultimi di tener conto dell’intervento dei Giudici di Lussemburgo, ma finendo per ingenerare ulteriore incertezza (tra l’altro, sull’applicazione temporale delle nuove linee guida).
L’adozione di tale ultima “indicazione di sistema”, infatti, lascia gli intermediari privi di “bussola” nel bel mezzo della “tempesta” giudiziaria: l’Organo di Vigilanza chiede a questi ultimi di adeguarsi ad un criterio di rimborso che tenga conto di “tutti i costi” connessi al finanziamento, ma al contempo non rivede e non abroga la propria produzione normativa di settore nella parte in cui questa si appalesa difforme.
Non suoni casuale, qui, l’uso del termine “normativa”, che al contrario va inteso nella sua accezione tecnico-giuridica.
Invero, mentre le Disposizioni di vigilanza del 29 luglio 2009 e s.m.i. tuttora in vigore (che, come si è visto supra, distinguono tra costi “up front” e “recurring” ai fini del rimborso) costituiscono esercizio delle attribuzioni di Banca d’Italia ai fini dell’attuazione della disciplina in materia di trasparenza di cui al titolo VI del T.U.B. – con indubbio valore di “normativa tecnica autorizzata” – l’adozione di indicazioni difformi nella forma tecnica della “comunicazione” (tal è la tipologia di atto “sbrigativamente” utilizzata dall’Authority) finisce per porre gli istituti vigilati di fronte ad un’antinomia insolubile: si chiede, cioè, a questi ultimi, di discostarsi da consolidati atti di normazione primaria e secondaria per affidarsi ad una mera “raccomandazione” di sistema.
Ancora sul recepimento parziale della Direttiva: il tema degli “indennizzi”
Sotto diverso profilo la normativa italiana non è perfettamente sovrapponibile alle indicazioni del “legislatore” europeo: quello degli “indennizzi” dovuti agli intermediari in caso di estinzione anticipata.
Uno degli argomenti principali della CGUE nella sentenza “Lexitor” è quello per cui «[…]il fatto di includere nella riduzione del costo totale del credito i costi che non dipendono dalla durata del contratto non è idoneo a penalizzare in maniera sproporzionata il soggetto concedente il credito. Infatti, occorre ricordare che gli interessi di quest’ultimo vengono presi in considerazione, da un lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2008/48, il quale prevede, a beneficio del mutuante, il diritto ad un indennizzo per gli eventuali costi direttamente collegati al rimborso anticipato del credito, e, dall’altro lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 4, della medesima direttiva, che offre agli Stati membri una possibilità supplementare di provvedere affinché l’indennizzo sia adeguato alle condizioni del credito e del mercato al fine di tutelare gli interessi del mutuante».
Orbene, la previsione, a beneficio del finanziatore, di un “indennizzo equo ed oggettivamente giustificato per eventuali costi direttamente collegati al rimborso anticipato del credito” non vale a compensare l’intermediario della perdita che deriverebbe dalla restituzione dei costi up front, la cui natura e funzione risultano già esaurite nella fase prodromica del rapporto.
In tale ottica, il legislatore italiano avrebbe però potuto avvalersi di quella opzione, prevista dall’art. 16, paragrafo 4 della Direttiva, che avrebbe potuto attribuire al creditore il diritto a pretendere eccezionalmente “un indennizzo maggiore se è in grado di dimostrare che la perdita subita a causa del rimborso anticipato supera l’importo determinato ai sensi del paragrafo 2”.
La normativa di recepimento non ha esercitato tale “opzione” e ciò si traduce in due corollari:
- il legislatore italiano, non aderendo al sistema del maggior indennizzo previsto dal legislatore europeo, ha dimostrato di optare chiaramente per la scelta della irrimborsabilità dei costi “up front”, ritenendo che un meccanismo siffatto non richiedesse alcuna compensazione del “sacrificio economico” degli intermediari;
- l’eventuale estensione dell’interpretazione “Lexitor” al contenzioso nazionale finirebbe per cagionare un ulteriore danno agli intermediari, costretti a restituire i costi “up front” senza poter pretendere corrispettivamente un adeguato indennizzo.
Il confronto con i “margini di manovra” concessi da altre direttive analoghe: la Direttiva 2014/17 in materia di contratti di credito immobiliare al consumatore
Un ulteriore “indizio” di erroneo recepimento della Direttiva si coglie dal raffronto con altra normativa europea analoga.
L’art. 16 della Direttiva 2008/48 non prevede alcuna possibilità per gli Stati membri di sottoporre l’esercizio del diritto di estinguere anticipatamente il rapporto a determinate condizioni (quali ad esempio restrizioni temporali sull’esercizio del diritto, restrizioni relative alle condizioni alle quali il diritto può essere esercitato, etc…), diversamente da quanto previsto, ad esempio, dall’art. 25, paragrafo 2, della Direttiva 2014/17 (in materia di contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali). Ne deriva che la prima (oggetto dell’interpretazione “Lexitor”) non lascia ai singoli Stati nessun margine per regolare l’esercizio del diritto in questione, sia per quanto riguarda il periodo temporale in cui può essere azionato, sia in ordine al trattamento conseguente all’estinzione anzitempo del rapporto.
Ulteriore differenza tra le Direttive riguarda, poi, le disposizioni relative all’efficacia vincolante dei testi normativi. Mentre, infatti, l’art. 22, paragrafo 1, della Direttiva 2008/48 esclude la possibilità per gli Stati membri di mantenere o introdurre nel proprio ordinamento disposizioni diverse da quelle in essa contenute, l’art. 41 della Direttiva 2014/17 utilizza espressioni meno stringenti.
Sulla scorta di tali osservazioni, recentemente il Collegio ABF di Napoli (con Decisione n. 17588 del 19 ottobre 2020) ha escluso che le conclusioni formulate dalla Corte di Giustizia nel caso “Lexitor” possano essere estese alle estinzioni anticipate dei rapporti di credito immobiliare al consumatore, nonostante il richiamo dell’art. 125 sexies, co. 1, TUB da parte dell’art. 120 noviesdecies TUB.
Invero, poiché la Direttiva che disciplina tali finanziamenti consente espressamente agli Stati membri di determinare le conseguenze derivanti dall’esercizio del diritto di estinzione anticipata, al Legislatore nazionale era consentito limitare la rimborsabilità dei costi alle sole componenti recuriring, avvalendosi della possibilità prevista dal secondo paragrafo dell’art. 25 della Direttiva 2014/17, con conseguente rinvio “statico” e non “dinamico” all’art. 125 sexies, comma 1, il quale troverebbe pertanto applicazione nella sua interpretazione ante “Lexitor”.
Se ne può dedurre, indirettamente, che lo Stato italiano, nel recepire la Direttiva del 2008, ha mal esercitato la propria discrezionalità nell’individuare gli strumenti attuativi degli obiettivi comunitari, andando a declinare nel dettaglio le conseguenze determinate dall’estinzione anticipata (circoscrivendo cioè arbitrariamente il diritto al rimborso del consumatore unicamente ai costi recurring), sebbene l’art. 22 par.1 escludesse del tutto tale facoltà.
Quali soluzioni interpretative e quale tutela per il consumatore?
Se si considera del tutto “contra legem” l’interpretazione “estensiva” offerta dai Giudici di Lussemburgo, il consumatore non resta sfornito di tutela, ma la soluzione va rinvenuta nella responsabilità dello Stato per erronea trasposizione della direttiva.
Infatti, non sarebbe ammissibile l’applicazione “diretta” della direttiva, se non nei rapporti “verticali” tra Stato e cittadino, sul presupposto che il primo abbia frapposto un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi posti dal “legislatore” europeo.
In altri termini, la mancata adozione delle disposizioni necessarie al recepimento pone in essere una violazione del diritto dell’Unione che – al di là dell’illecito costituito dalla mancata trasposizione e delle sue conseguenze sul piano istituzionale (procedimento di infrazione) – provoca la responsabilità patrimoniale dello Stato membro inadempiente (C. giust., 19.11.1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich). Ciò a condizione che le disposizioni violate della direttiva siano intese ad attribuire un diritto ai privati e che sussista un nesso di causalità tra il mancato adempimento ed il danno da essi patito.
Dunque l’inesatta trasposizione della direttiva dovrebbe comportare la necessità che il consumatore invochi l’inadempienza dello Stato italiano all’obbligo di trasporre correttamente la direttiva de qua, facendo valere un autonomo diritto di natura risarcitoria-indennitaria.
Ciò che la Corte di Giustizia non dice: il rimborso dei costi corrisposti a terzi ed i criteri di calcolo dei costi da ripetere
A tutto voler concedere – ed anche seguendo la tesi qui avversata – gli istituti di credito intravedono alcune delle proprie “ragioni” anche nei “silenzi” della Corte di Giustizia.
Vi sono, infatti, due aspetti rilevanti non affrontati espressamente dalla pronuncia “Lexitor”.
In primis, la CGUE, nell’individuare i costi oggetto di rimborso anticipato (“tutti i costi posti a carico del consumatore”) non considera gli oneri non di competenza del finanziatore: tutti quei costi che l’intermediario corrisponde in favore di terzi, che, in quanto tali, nel momento in cui entrano nella sfera giuridico-patrimoniale di un soggetto diverso dal finanziatore, non possono essere da quest’ultimo recuperati (ad esempio le commissioni d’intermediazione e gli oneri erariali).
Nel silenzio della “Lexitor”, la soluzione va trovata nelle ordinarie regole in tema di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c.: ogni qualvolta l’istituto abbia corrisposto a terzi i compensi che il consumatore reclama in restituzione, l’azione recuperatoria può essere esperita, in quanto di natura personale, solo da parte del solvens nei confronti del reale accipiens (il soggetto che ha ricevuto il pagamento). Sicché, la domanda di ripetizione delle somme non maturate, incassate da soggetti terzi in forza del contratto di finanziamento, vede quale unico legittimato passivo a risponderne il soggetto che le ha incassate, sia esso il mediatore creditizio (oneri di intermediazione), la Compagnia di Assicurazioni (premi), lo Stato (imposte) o altro soggetto (per quanto di competenza).
Il tema appena accennato deve essere trattato con particolare attenzione, in quanto costituisce la principale delle possibili implicazioni “sistemiche” della pronuncia “Lexitor” di cui si è detto in apertura, se non correttamente valorizzato dal giudice nazionale, finendo per incidere su dinamiche di mancata previsione di bilancio e per far ricadere esclusivamente sulle banche le “falle” nella c.d. catena distributiva.
Sul punto andrà, peraltro, verificata “a monte”, caso per caso, la concreta configurazione degli accordi contrattuali, onde individuare se tecnicamente gli oneri o compensi corrisposti a terzi siano o meno connessi a servizi “obbligatori per ottenere il credito”.
La stessa pronuncia della CGUE, infatti, nel ricostruire il contesto normativo applicabile richiama espressamente la definizione di “costo totale del credito per il consumatore” contenuta nell’art. 3 della Direttiva, a mente del quale questa individua “tutti i costi, compresi gli interessi, le commissioni, le imposte e tutte le altre spese che il consumatore deve pagare in relazione al contratto di credito e di cui il creditore è a conoscenza, escluse le spese notarili; sono inclusi anche i costi relativi a servizi accessori connessi con il contratto di credito, in particolare i premi assicurativi, se, in aggiunta, la conclusione di un contratto avente ad oggetto un servizio è obbligatoria per ottenere il credito oppure per ottenerlo alle condizioni contrattuali offerte”.
Ne discende che, se dal complesso dei documenti contrattuali recanti la disciplina del mutuo e dei rapporti connessi emerga che il consumatore si è liberamente rivolto a terzi soggetti (in part., al mediatore creditizio per conseguire il servizio di “messa in relazione” con l’istituto mutuante ex art. 128 sexies TUB), la cui prestazione non è obbligatoria per la concessione del credito, a stretto rigore le relative provvigioni neppure dovrebbero farsi rientrare nel concetto di “costi” rimborsabili a mente della disciplina comunitaria.
L’altro profilo “sottaciuto” dalla sentenza “Lexitor” è quello del criterio di calcolo delle quote dei costi non maturati, da applicarsi ai fini del rimborso.
Sotto tale profilo, a fronte delle richieste dei consumatori di applicare il metodo lineare, c.d. pro-rata temporis, va notato che rispetto ai costi “up front” mancherebbe uno dei fattori determinanti ai fini del computo: il “fattore-tempo”.
Il suddetto criterio — che presuppone la divisione dell’importo commissionale per il numero totale delle rate del finanziamento, e poi la moltiplicazione del risultato ottenuto per le rate residue — è intimamente correlato ai soli oneri recurring.
Difatti, la logica di calcolo sottesa al pro-rata temporis postula, per definizione, che l’attività del finanziatore — remunerata con la commissione oggetto di rimborso — si protragga nel corso del rapporto e per tutta la durata di esso (non avrebbe senso altrimenti ipotizzare, come invece sottinteso al pro-rata temporis, che il valore economico dell’attività resa dall’intermediario in concomitanza di ciascuna rata resti costante).
L’elemento di incertezza è ancor più evidente, se si prova a spingere la profondità dell’indagine sino all’esame dei lavori preparatori alla direttiva, allorquando era stata suggerita l’adozione di un criterio di calcolo conforme ai “principi attuariali”.
È indicativo peraltro che la stessa decisione del Collegio di Coordinamento ABF n. 2625 del 19.12.2019, che apre all’estensibilità dei principi “Lexitor” al contenzioso nazionale, riserva comunque ai singoli Collegi territoriali dell’ABF il compito di definire il criterio di calcolo per la riduzione dei “costi istantanei” secondo parametri di “equità” ed alcuni recenti pronunciamenti si sono attestati sull’inapplicabilità del metodo “pro rata temporis”, optando per un criterio “finanziario” al tasso d’interesse nominale (i.e. curva degli interessi secondo il piano di ammortamento) e/o alla curva degli interessi effettiva, quale desumibile dal conteggio estintivo (Cfr., ex plurimis, Collegio ABF di Milano, Decisione N. 16631 del 28 settembre 2020; Collegio ABF di Bari, Decisione N. 6346 del 07 aprile 2020).
La difficoltà “tecnica” spiega probabilmente, a contrario, anche il motivo per il quale la normativa nazionale aveva ritenuto di disporre un trattamento differenziato per i costi legati alla “durata residua del contratto”.
*
Le criticità che si è tentato di evidenziare nel presente contributo dimostrano che il quadro ermeneutico è ben lungi dal trovare una propria composizione.
Nella difficoltà di trovare l’ago della bilancia tra i contrapposti interessi, tuttavia, occorre rifuggire da quelle soluzioni interpretative “gordiane” che rischiano di sacrificare eccessivamente le ragioni di una delle parti.
Quegli stessi interessi e valori ai quali la pronuncia “Lexitor” ha accordato preminenza vanno poi calati dalla realtà astratta a quella concreta delle situazioni giuridiche sostanziali, sulle quali incidono una pluralità di “norme”, potenzialmente confliggenti con i “risultati” perseguiti dal legislatore comunitario, ma sulla base delle quali le parti hanno liberamente e legittimamente deciso di approntare la regolamentazione pattizia.
Cancellarle con un “tratto di penna” rischia di produrre un impatto sistemico sul comparto del credito al consumo, che nel medio-lungo termine potrà anche riflettersi, paradossalmente, in un danno ai consumatori stessi, sotto forma di un “rincaro” dei “costi” per bilanciare le perdite degli istituti sui rapporti estinti, ovvero di progressivo irrigidimento delle procedure per l’accesso alle “cessioni del quinto”.
Intanto, il dibattito giurisprudenziale è ancora troppo “acerbo” per giungere ad una definitiva composizione.
Non resta che attenderne i prossimi sviluppi ed auspicare, nelle more, un intervento chiarificatore del legislatore nazionale.
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